Finitezza antropologica, parusia, resurrezione della carne

di mons. Ettore Malnati - 2 Novembre 2023
Volendo affrontare alcuni aspetti dell’escatologia cristiana in una
prospettiva teologica ovviamente è necessario
partire dalla finitezza antropologica e dalla dimensione della prospettiva
cristiana del mistero pasquale di Cristo, non esclusa la sua ascensione, che
presenta la ricomposizione dell’anima umana e del corpo spirituale del Verbo
incarnato, presenti in modo singolare e reale nella gloria della seconda
Persona divina dell’unico Dio.
Finitezza dunque dell’umano che persiste in Cristo senza essere
assorbita dalla gloria divina, ma presente con essa, grazie all’unione
ipostatica del Verbo realizzatosi nella realtà viatoria.
Già il Concilio di Calcedonia aveva definito nell’incarnazione del Verbo
la vera natura umana, necessaria per la stessa redenzione acquisita e
distribuita (DS 301-302) e prima ancora ciò lo affermava il Concilio di Nicea
(DS 125).
1. La finitezza
La finitezza umana in sé non può essere considerata teologicamente solo
nella rigida concezione della Scolastica post-tridentina, che ha separato nella
finitezza l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale, portando l’antropologia
sino alla radicale conseguenza di un dualismo dei due ordini.
La teologia contemporanea, alla luce della cristologia, vede
nella finitezza umana una capacità che renderà possibile mediante la sua
consapevolezza di natura nel mistero del Verbo incarnato un recupero di
tensione tra l’”io” e il “sé” proprio della finitezza
antropologica, che è la sua
caratteristica non solo nella realtà viatoria, ma anche nell’escatologia
intermedia sino alla parusia di
Cristo.
È Cristo la prospettiva liberante e collante insieme di ciò
che è proprio della finitezza (“io” e “sé”) nella sua
perfezione “ricapitolata” dalla “nuova creazione” che è Cristo, non solo per
l’uomo.
Giustamente afferma Wolfhart Pannenberg che “persino nella pienezza
escatologica dei tempi, quando l’umanità [e le singole individualità personali]
parteciperanno alla gloria di Dio, il carattere finito dell’esistenza umana
sarà mantenuto”[1].
Questo sta ad indicare come la finitezza umana sia qualcosa non di
solamente contingente, l’”io”, ma essenziale per la persona umana,
nella tensione verso ciò che chiamiamo il “sé”.
Non per nulla il Concilio Vaticano II nella Gaudium et Spes presenta “Cristo nuovo Adamo … che svela
pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (n.22).
Merita dunque dare una lettura teologica della finitezza umana
(l’”io” e il “sé”) per cogliere quell’elemento fondamentale
che segna, in modo identitativo quella quidditas della vita umana che
non può mai essere sospesa neppure con la cessione dell’esperienza
spazio-temporale della persona.
Questo elemento sostanziale che è la finitezza fa la differenza tra gli
esseri umani e Dio. Ciò pertanto non può essere alienato perché, così facendo,
verrebbe a cessare la distinzione tra gli esseri.
È doveroso allora offrire un’interpretazione teologica della finitezza,
perché questa riguarda non solo l’antropologia e l’escatologia, ma anche la
cristologia, in quanto “nemmeno l’umanità di Cristo – infatti – viene assorbita
dalla gloria divina e quindi anche la sua finitezza – dice Pannenberg – è, e
rimane, come eternamente esistente nel legame con Dio”[2].
Ciò è patrimonio della
cristologia, non solo cattolica.
Si tratta allora di teologicamente avvicinarsi all’identità della
persona, cercando di cogliere nella finitezza quel qualcosa che appartenga al
carattere creaturale della persona umana e dell’umanità.
Facendo riferimento ai primi capitoli della Genesi, che precedono la
narrazione del “mito” della colpa adamitica, noi troviamo che la finitezza
dell’uomo e della donna, segnata dall’essere “immagine e somiglianza” del
Creatore (Gen 1,27), non comporta in
sé il “dramma” del morire.
Sarà poi l’aver assecondato la provocazione del tentatore che alla
finitezza sarà legato anche il dramma della morte (Gen 3,19 e Rm 6,23).
W. Pannenberg sottolinea che questa interpretazione è possibile solo se
si parte da una prospettiva antropologica che trascende il mero approccio
fenomenologico, poiché nell’esperienza concreta della vita umana, morte e
finitezza sono sempre insieme. Infatti la comprensione teologica di questa
co-appartenenza (finitezza e morte) è basata sul fatto che nella realtà
viatoria del vivere umano non è segnata
(la co-appartenenza) solo dal fatto della finitezza – osserva giustamente
Pannenberg – ma anche dal peccato e dalle sue conseguenze. “È la funzione del
peccato nella sua relazione alla finitezza che fa delle due grandezze un tutt’uno
nell’esperienza umana”[3].
La finitezza come tale, dice Pannenberg, non comporta il dramma della
morte come parte della natura umana, in quanto la pienezza del nostro
“sé” finito non può essere contenuta in toto nel momento dell’”io”
circoscritto nella dimensione spazio-temporale.
La nostra identità, come “sé” finito, è qualcosa di diverso
dalla mera realtà contingente (l’”io”). Essa è l’integrazione di
tutte le parti della nostra esistenza individuale, come un tutto che va oltre
l’”io” spazio-temporale.
2. Escatologia intermedia
Secondo la teologia cristiana la separazione dell’”io” dal
“sé”, cioè la separazione dalla totalità
della finitezza quale esistenziale congiunzione della persona – anima/corpo
– è ciò che ha prodotto e produce
quell’impoverimento esistenziale che è la colpa d’origine o peccato (Rm 6,23 e Rm 8,10).
Pannenberg vede proprio nella colpa l’assolutizzazione dell’”io”
che esclude dalla sua finitezza l’intrinseca relazione con il “sé”
che riceve luce dall’infinitezza del Totalmente-Altro, cioè dell’”in sé
per sé” – direbbe Sarte – cioè Dio e quindi provoca il dramma della morte
nell’”io”.
La separazione della sinergia propria della finitezza, cioè la
separazione del corpo materiale dallo spirito dell’”io”, per la
teologia cristiana troverà ricompattazione del “sé” finito con il suo
“corpo spirituale” nella parusia di
Cristo, cioè nella ricapitolazione in Lui – nuova creazione – di tutte le cose nell’evento parusiaco: “Come per la
caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono
concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in
abbondanza su tutti” (Rm 5,15).
Qui l’antropologia interpella la cristologia che dona una visione di
recupero della “polverizzazione” della finitezza, causata dalla colpa con la
prospettiva cristica che offre composizione tra l’”io” purificato
dalla morte del Redentore, e il “sé” finito che riceve dalla “grazia”
del Cristo – nuova creazione – la sua perfezione entitativa e il merito della
sua adesione a Lui, che in sé ha già la dimensione umana della finitezza
completamente realizzata presso la gloria trinitaria.
Pannenberg sottolinea che il peccato è l’ostacolo che si frappone tra l’”io”
(come presenza spazio-temporale e immediata) e il “sé” (quale
interezza di tutti gli elementi che compongono l’identità razionale finita in
relazione a Dio, quale “Res” infinita) creando la separazione del
“sé” dall’”io”, impedendo così alla finitezza di
relazionarsi con la propria identità di realtà-penultima, in quanto finito, con
la realtà ultima, che qualifica l’”io” aperto concretamente al
“sé”.
La relazione quindi tra finito e infinito, cioè tra l’uomo e Dio, ciò
che dà senso alla finitezza segnata dall’impoverimento che rende l’”io”
finito in tensione del suo “sé”, che ha, nella sua dimensione
intrinseca, la nostalgia dell’”in sé per sé”, cioè di Dio. Certo Dio
è sì diverso in senso radicale dalla finitezza antropologica, ma nello stesso
tempo è all’origine di essa ed è la
piena realizzazione della finitezza, dove il dramma della morte viene
ricomposto e la finitezza pienamente realizzata nella sua ricompattazione (dopo
la separazione dell’anima dal corpo, nel dramma della morte), nella parusia di
Cristo (vero uomo e vero Dio), la cui finitezza umana è presente nella gloria
ed è anticipazione di essa.
3. La parusia e la resurrezione della
carne
La parusia, grazie alla missione del Verbo incarnato, ridona,
oltre la morte, alla finitezza antropologica la sinergia identitativa dell’”io”
con il “sé” della persona, nella dinamica del suo fine che è la
contemplazione dell’”in sé per sé”, cioè di Dio, quell’Infinito di
cui la persona, nella sua finitezza, è immagine
sbiadita per la colpa, ma redenta e recuperata dall’opera del Verbo incarnato,
che dà piena luce e realizzazione a chi accoglie liberamente la relazione, cioè
la sequela, al suo piano di uomo nuovo e creazione nuova. Il tutto diverrà dono
per ogni finitezza individua nella parusia
del Cristo.
In questa prospettiva l’escatologia intermedia, dove l’anima attende la
ricompattazione con il corpo spirituale per la congiunzione dell’”io”
con il “sé”, grazie all’accoglienza del Cristo, uomo-Dio, nel suo giorno
di gloria, diviene, per l’antropologia teologica cristiana, essenziale per la
piena realizzazione della finitezza liberata dagli effetti della colpa, grazie
a Colui che, senza colpa, si è fatto
peccato per togliere dall’umanità questo esistenziale “impedimento”.
Accettato questo aspetto dell’antropologia teologica cristiana della
piena realizzazione della finitezza legata all’evento parusiaco, l’aver fatto propria liberamente la
decisione-relazione con Cristo, nello stato viatorio, questo diviene conditio
sine qua non per la ricompattazione della persona anima-corpo nel giorno
della parusia, la quale avrà la stessa identità personale e non
materiale dei soggetti che erano nell’esistenza spazio-temporale.
La teologia cristiana focalizza questo status con il termine “corpo
risorto”, che riceve “identità” dal Cristo risorto e glorioso, quale nuovo
Adamo che ha liberato con la sua morte la finitezza antropologica impoverita
dal “vecchio Adamo”. Dopo l’evento Cristo l’umanità viene orientata verso
quella pienezza originale che Cristo ha meritato “pro multis” condizionata alla
libertà dell’”io”.
L’apostolo Paolo è esplicito in ciò: “Egli [Cristo] trasformerà il
nostro corpo mortale nel suo corpo glorioso” (Fil 3,2).
“Il Magistero contemporaneo riafferma che la Chiesa crede nella
resurrezione della carne e che tale resurrezione si riferisce a tutto l’uomo e
che Cristo è il Primogenito dei Risorti e della sua resurrezione beneficeranno
tutti coloro che in Lui hanno creduto. La verità della fede cristiana è dunque
quella della resurrezione dei morti, che riguardando tutto l’uomo, non può
essere solo la semplice sopravvivenza dell’”io”, ma deve prevedere la
ricomposizione della persona, con altri parametri, nella dimensione
relazionante con il Cristo della gloria …”[4].
La finitezza antropologica redenta, cioè purificata dalla kenosi del
Verbo, se si è posta in relazione, durante la realtà viatoria, con la libertà
alla sequela di Cristo, potrà – come dice Paolo – constatare che “la morte è
stata inghiottita nella vittoria” (1 Cor
15,51-54) e quindi la finitezza ha ritrovato la sua perfezione del
“sé” che, purificato dalla conseguenza della colpa, risplenderà di
quella luce dell’infinto che nell’”io”, cioè nella realtà viatoria,
ha cercato di porsi in relazione non per visione, ma per “immagine”.
Ora tutto è compiuto: infinito
e finito sono in perfetta sinergia nella distinzione propria e nell’apice della
perfezione identitativa di ciascuno.
4. Conclusioni
Posta così la riflessione teologica sulla prospettiva della finitezza
antropologica segnata sia dall’opera del primo Adamo e del nuovo Adamo vive
certo il travaglio dell’attesa che la mortifica ma nella dimensione restaurante
dell’evento Cristo morto, risorto e asceso alla gloria divina, trova la
ricompattazione in Lui dell’”io” con il “sé” che divengono
distinta ma vera comunione “per Cristo” con l’”in sé per sé” infinito
che dà piena realizzazione, se vi è stata la libera scelta verso questa
tensione nella realtà viatoria, della finitezza nella visione.
2 novembre 2023
Sac. Prof. Ettore Malnati