Una parola sul fine vita

di mons. Ettore Malnati - 2 Ottobre 2023

Ciò che oggi è oggetto di valenza ideologica è proprio la vita, da quella prenatale alla sua conclusione.

Chi ha il mandato di garantire una Comunità di persone, quale è uno Stato, non può certo fare a meno di legiferare in una criterialità laica che ovviamente corrisponde all’etica non del più forte, ma della tutela della dignità della vita e della persona.

E’ più che doveroso che lo Stato legiferi, tenendo conto però dello spirito della Carta dei Diritti dell’Uomo accolta dalla Comunità Internazionale. Infatti già nella Dichiarazione del 10 dicembre 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con l’assenso e la sottoscrizione delle Nazioni aderenti, afferma nell’art. 3 che “ ogni individuo ha il diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona” e poi all’art. 7 che “tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno
diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della
legge…..”.

La legge ha le sue legittimazioni nell’etica, che tutela la dignità della persona, ne promuove la qualità e la difende dai vari attentati contro il suo bene esistenziale e sociale, anche da parte del soggetto.

Compito quindi di chi è preposto al governo della società civile è quello di educare al
rispetto dei diritti e dei doveri della persona umana in ogni situazione
sociale, religiosa, di età e di salute.

Legiferare è dunque un dovere, dove legale ed etico è ciò che corrisponde alla promozione
del bene integrale della persona, anche difendendo questa legalità dagli
impoverimenti psicologici e fisici dei soggetti.Infatti si legifera per
stigmatizzare furti, omicidi, truffe e anche suicidi.

È importante che ogni legislazione per essere equa abbia le sue eccezioni, che rientrano nella legalità se validamente ed
eticamente motivate.

Così deve essere anche nei confronti di quelle persone che dal punto di vista di gravi situazioni fisiche “hanno bisogno di una assistenza continua da parte di terzi”.

È eticamente assodato che l’accanimento terapeutico nelle situazioni
irreversibili è fuori posto, quindi la scienza medica è eticamente libera di
accompagnare la persona a spegnersi, senza ulteriori inconcludenti espedienti
chimici.

Ciò di cui i famigliari, le stesse strutture sanitarie e la Comunità civile si devono fare carico è quello di essere vicini con adulta attenzione e con affetto alle
persone che si trovano in condizioni “prigioniere” del loro corpo e alle
situazioni in cui le persone sono tenute in vita esclusivamente da trattamenti
eccezionali, prescritti dai sanitari, come la respirazione e l’alimentazione
artificiale.

Certo chi si sente “prigioniero” e impoverito nel suo vissuto è tentato a domandare di “chiudere“. Ciò è più che comprensibile. Lo stesso Giobbe, nel libro biblico, auspica
per sé di non essere mai venuto al mondo e brama la morte, trova però una
ragione nel “combattimento”….

Mentre però il soggetto soffre di questo impoverimento, non è inutile, per chi lo assiste,  avere la consapevolezza che non solo si vive
per se stessi ma la nostra vita, anche nella sua prostrazione, appartiene,
nelle sue luci e nelle sue ombre, anche al grande mosaico dell’umanità. Questo
forse può essere suggerito.

In ogni scelta la persona esprime anche nel dolore il suo dramma e chiede.….

Anche questa è preghiera, che forse noi non capiamo, ma è il lamento che Dio accoglie e scusa, oltre ogni umana logica.